Aspirare al futuro desiderando il passato?

In Europa quasi 120 milioni di persone sono a rischio povertà o esclusione sociale, ossia il 24,2 per cento della popolazione contro il 23,4  nel 2010 e il 23,5 nel 2008. Lo rende noto Eurostat in base ai dati 2011. Secondo l'istituto europeo di statistica, queste persone sono state confrontate, oltre al ''rischio di povertà, a privazioni importanti.  I più colpiti sono soprattutto i bulgari, dove quasi la metà della popolazione (49 per cento) sono vicini al diventare poveri, seguiti da romeni e lettoni (40%), poi lituani (33 per cento). Subito dopo seguono i greci, a quota 31 per cento (circa 3,4 milioni di persone) nel 2011, rispetto al 28,1 per cento del 2008. Gli spagnoli raggiungono una percentuale del 27 per cento era il 22,9 per cento nel 2008), il che significa 12,4 milioni di persone a rischio. I portoghesi segnano una percentuale (24,4 per cento) inferiore a quella degli spagnoli e in costante diminuzione dal 2008 (quando era al 26 per cento). La Francia, dove viene stimato un dato inferiore (19,3 per cento) alla media UE, sono comunque 11,8 milioni i cittadini sull'orlo dell'indigenza. Per l'Italia nel 2010 la minaccia povertà interessava il 24,5 per cento della popolazione. Non viene risparmiata dagli effetti della crisi nemmeno la Croazia, dove il dato arriva al 32,7 per cento nel 2011, l'equivalente di circa 1,4 milioni di cittadini.

Ma, nonostante i segnali positivi del buon andamento dell'economia americana, gli annunci dell'imminente "uscita dalla crisi" che si sono susseguiti negli scorsi mesi a ogni minimo accenno di rialzo sulle borse vanno scemando, sono anzi ormai scomparsi. Un imbarazzato silenzio ha preso il posto degli isolati soprassalti di ottimismo che hanno tenuto incrociate tante dita in ogni angolo di Europa e Stati Uniti. Comincia a farsi strada un fondato sospetto: che sia arduo immaginare una "ripresa" senza occupazione, che difficilmente l'Italia potrà rilanciare le proprie esportazioni mentre milioni di Americani mangiano con i buoni–pasto del governo e che la ricchezza bruciata in pochi mesi non potrà essere recuperata per un motivo molto semplice: perché non è mai esistita.

Noi non abbiamo motivo di augurarci un ritorno alle condizioni "pre–crisi", per una semplice ragione: le condizioni pre–crisi, come il termine stesso vorrebbe insinuare, sono le condizioni che hanno condotto alla crisi, che ne avevano in sé i germi e le premesse obiettive. Non si tratta di "tornare a crescere", perché prima del 2008 non si cresceva affatto, o almeno non abbastanza da garantire a europei e nordamericani il tenore di vita a cui erano abituati. Lo stato che ha preceduto la crisi, e verso il quale si vorrebbero ora sospingere l’opinione pubblica, è lo stato nel quale i cittadini americani hanno fatto un uso scriteriato delle carte di credito e di mutui bancari per frenare l'irresistibile declino del loro tenore di vita, alimentando così la bolla finanziaria che è stata a lungo nascosta da una montagna di spazzatura (i derivati) che è stata sparsa a piene mani in tutto il mondo occidentale. Questo è il paradiso perduto che nuovi e vecchi predicatori ci additano, la terra promessa in fondo a tanto deserto, il "pre–crisi" che si vorrebbe rapidamente convertire nel "dopo–crisi".
Recentemente un economista di Harvard ci ha informato che "studi sulla felicità dimostrano che la disoccupazione produce un effetto negativo comparabile a quello della morte di un congiunto". È sempre consolante vedere fino a che punto si è spinta la ricerca nei laboratori di Harvard. Presto sarà chiaro a tutti, anche ai maghi di Harvard, Wall Street, Washington, Cambridge e della City, che non si tratta di "uscire dalla crisi" ma di entrare nell'era dell'economia reale, dello sviluppo possibile e sostenibile e delle aspettative realistiche.

Sarà finalmente chiaro e si riscoprirà che l'occupazione e quindi il lavoro non sono un prodotto accessorio e tutto sommato facoltativo del mercato ma ne sono il primo presupposto, che però si ottiene investendo nell'ammodernamento dell'apparato statale e nell'economia produttiva, non in derivati, futures o pietrificando il capitale in seconde e terze case. Di cemento in Italia c'è n'è anche troppo, si dovrebbe fare solo  manutenzione e ristrutturazione dell'edilizia esistente e mettere in sicurezza il territorio. Ma finché non si avranno grandi capitali da investire e lungimiranti ed efficaci progetti d’investimento, soltanto una politica redistributiva che sposti concretamente risorse dalla finanza speculativa all'economia produttiva, potrà consentire all'economia di funzionare.  Ci sono tasche troppo piene, inutilmente piene, a volte ingiustamente piene  e tasche troppo vuote: ecco la semplice, banale aritmetica della crisi. In Italia, un’equa redistribuzione della ricchezza passa attraverso una vera patrimoniale che potrà prendere i soldi da quel 12,5% di italiani che possiede quasi il 50% della ricchezza di questo Paese. L'attuale governo si appresta a dire addio, dopo che il parlamento avrà approvato la legge di stabilità, senza avere recuperato un centesimo dai capitali esportati illegalmente in Svizzera, che avranno avuto il tempo di emigrare in altri paradisi fiscali. Ci ritroviamo con una riacquistata credibilità internazionale, lo stipendio agli statali riacciuffato, ma con il debito pubblico, la disoccupazione e l'inflazione, aumentatati e il PIL in  rapida discesa. Adesso occorre dire "basta" alle promesse illusorie ed ai populismi, che già si riaffacciano sulla scena politica italiana. Ricordiamolo quando ci accingeremo a scegliere il nuovo governo di questo nostro amato Paese. Ci sono forze progressiste sane, responsabili ed oneste che hanno posto in primo piano, moralità e lavoro, assecondiamole mettendole alla prova!
 

Post popolari in questo blog

RIGORE ma anche CRESCITA

Siglato un accordo di libero scambio tra U.E. e Canadà.

EUROPA: Agli Stati il rigore e all'Europa la crescita e il dinamismo!