Riscoprire l'importanza del lavoro apprendendo dalla storia economica!


"Un certo capitalismo" miope, egoista e a corto di respiro, vive e prospera  utilizzando la disoccupazione strutturale per poter tener più bassi possibili i livelli delle retribuzioni, profittando della concorrenza al ribasso che si fanno tra loro i lavoratori per poter trovare un’occupazione. Ma in passato tale approccio non sempre ha avuto la meglio, perchè imprenditori lungimiranti hanno dato il giusto valore e riconoscimento al lavoro.  Nella storia dell’imprenditoria tutti conoscono Henry Ford, Adriano Olivetti, Thomas Edison, Soichiro Honda, Enrico Mattei, Torakusu Yamaha, Steve Jobs e nessuno, o quasi, conosce Andrew Carnegie, probabilmente il più grande tra tutti questi uomini d’impresa. E’ vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e la sua grandezza è dovuta, non tanto alle dimensioni dell’impero (siamo nel settore dell’acciaio) che è stato capace di sviluppare partendo da zero, (era un semplice operaio quando pensò che se fosse riuscito a far diminuire il prezzo dell’acciaio sul mercato sarebbe diventato l’uomo più ricco del mondo, cosa puntualmente avvenuta), ma nell’aver riflettuto sui motivi del suo successo al fine di mettere questa esperienza a disposizione di altri e nell’avere quindi concepito una filosofia dell’agire imprenditoriale che può essere utilizzata da chiunque a prescindere dalla cultura o dagli studi fatti.  Da qui la sua fama di filantropo, dovuta non solamente agli aiuti che ha elargito come nessun altro imprenditore prima di lui ma soprattutto alla sua idea di ispirare chi nella vita vuole cambiare, in meglio, la propria posizione.
Tutti possono conseguire il successo, ma se manca l’applicazione non prendiamocela con la sorte avversa per gli scarsi risultati. Quando manca la capacità di darsi uno scopo fondamentale e di impiegare tutte le energie disponibili per raggiungerlo, sviluppando piani e agendo in conseguenza secondo una ferrea consequenzialità sostenuta dalla determinazione, è difficile cambiare la propria posizione. Carnegie dice che è ognuno di noi a fissare il suo stipendio e le sue condizioni di vita. E’ sgradevole dover ammettere, che nei tempi in cui viviamo e per certi pseudo-imprenditori e manager di certi ambienti che ci circondano, ciò difficilmente accade perchè spesso non è il merito che conta.
Non c’è niente di male nel fare utili, ma non può essere l’unica dimensione dell’agire imprenditoriale. Ad essa devono accompagnarsi  un costante riferimento alla nostra costituzione dove afferma che "l'iniziativa economica privata è libera, non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, l'impresa svolge un ruolo sociale", una dimensione spirituale, una crescita personale in grado di far percepire orizzonti più avanzati, ed una dimensione umana, basata sul riconoscimento che l’uomo non va considerato come un semplice mezzo di cui servirsi ma come un fine in sé stesso, consentendogli, se merita, di sviluppare le sue potenzialità. Ricordo un aneddoto di Adriano Olivetti che di fronte alle difficoltà della sua azienda, ha chiamato al capezzale dell'ammalato i suoi migliori manager chiedendo loro un'analisi della situazione e una soluzione per uscire dalla crisi che stava attraversando. Quando i manager si ripresentarono, proponendo che occorreva licenziare 2000 dipendenti, Adriano rispose loro che se non avessero trovato un'altra soluzione che non contemplasse il licenziamento di un solo operaio, avrebbe licenziato loro. Da quel momento, investendo sulle risorse umane e accrescendole, la Olivetti è rinata a nuova vita ed è diventa grande. L'imprenditore illuminato Adriano Olivetti innanzitutto si preoccupava dei suoi dipendenti. Su di essi investiva in formazione continua perchè erano considerati "la risorsa umana" dell'azienda e gli imprenditori che lo seguirono continuarono su questa strada, portando l'azienda nel settore dell'informatica e della telefonia e assumendo tanti giovani. Al suo "apice" l'azienda poteva vantare 70.000 dipendenti; l'esperienza che essi acquisivano nel tempo erano considerati un valore aziendale e quindi la "precarietà" di oggi, era del tutto sconosciuta; mai si è dovuto fare ricorso all'articolo 18, per licenziare un  lavoratore. Il posto fisso non era una "monotonia", come non dovrebbe esserlo oggi, perchè le conoscenze e la crescita professionale del lavoratore erano e sono una ricchezza da spendere nella stessa azienda, svolgendo man mano mansioni che richiedono conoscenza, esperienza, capacità di adattamento ai nuovi ruoli, e una buona parte degli utili era reinvestita nell'azienda stessa. Anche Carnegie ha fatto più profitti di qualsiasi altro imprenditore, per poi restituirli quasi integralmente alla comunità ma sempre con un lucido approccio meritocratico, insomma poca assistenza e molto riconoscimento del merito. Le nozioni che si acquisiscono con l’istruzione vengono rese produttive dall’individuo ai fini di qualche risultato.

Certo, sono seriamente a rischio, e con ragione, le carriere fatte per pura anzianità, senza l’ombra di un merito; ricordo, a chi non lo sapesse, che l’Italia è l’unico Paese al mondo dove c’è un generale ogni 20 soldati e le carriere per puro effetto di pedigree. Il pensiero di Carnegie relativamente a questo punto, ci dà una mano per rientrare nella realtà. Egli ci ricorda che con lui imprenditore tutti hanno potuto fare carriera, bastava che lo volessero. E che significa volerlo? Significa dare sempre qualcosa in più di quello che si prende, assumere l’iniziativa, non titubare di fronte alle responsabilità, chiedere, sì chiedere, di essere messi alla prova con un maggior carico di lavoro invece di lamentarsi di quello che si ha, andare oltre il proprio stretto compito, agire, far accadere le cose, rendersi indispensabili e insostituibili. Vedo infatti, qui da noi, parecchie persone che sono state allevate a pane e “diritti” e che vanno al lavoro con l’entusiasmo di quello che deve sbrigare una sgradevole corvée, con però in testa una unica idea fondamentale, questa sicuramente bella chiara : portare a casa qualcosa in cambio di nulla. 

Carnegie è stato il primo a capire che nessuna mente umana può dirsi in sé completa e che solo quando si dà corso ad una armoniosa alleanza tra due o più menti, tutti i problemi possono essere risolti e può nascere qualcosa di veramente grande. Utilizzando questo principio, da lui chiamato master mind , circondandosi di gente più capace di lui, non avendo paura dell’intelligenza dei più stretti collaboratori ma anzi stimolandola e sviluppandola sempre di più, lui è diventato l’uomo più ricco del mondo. A casa nostra non è così, ci godiamo a rimanere piccoli e marginali, ognuno però re del suo pollaio. Molti ambienti aziendali sono ancora luoghi dove l’unica parola è quella del capo, l’unico pensiero autorizzato è il suo, dove non una voce può levarsi a dissenso, a critica, a pur modesto suggerimento di seguire vie diverse da quella padronale, l’unica dotata di luce, intelligenza e conoscenza. Sono le stesse aziende dove i proprietari si lamentano che nessuna delega o decentramento è possibile stante la manifesta incapacità ed inettitudine dei sottoposti (sic) a prendersi qualsiasi tipo di responsabilità e ovviamente hanno ragione, perfetta dimostrazione della profezia che si auto-avvera. La maggior parte delle aziende che la crisi sta mandando al dissesto appartiene a questa categoria, imprenditoria di scarsa qualità che s’è messa in mare quando c’era bonaccia e qualsiasi contadino era capace di navigare. La cooperazione secondo Carnegie, e lui ci è arrivato decenni prima di qualsiasi business school, non ha nulla di sofisticato o che necessiti di particolari percorsi di studio: è semplicemente la religione del lavorare insieme, parte integrante della prestazione retribuita, tale da escludere il lavoratore stesso da qualsiasi avanzamento laddove si dimostrasse refrattario a tale pratica. C’è qualche scuola in Italia dove ai ragazzi si parla di questo, così sanno come girano le cose quando entreranno in azienda?
E il tempo libero ?  Carnegie ci ricorda che tutto il tempo è libero, sta a noi decidere come utilizzarlo. Naturalmente, chi non è riuscito a darsi nella vita uno scopo fondamentale, tenderà a vedere il lavoro come il tempo della costrizione e il cosiddetto tempo libero come il tempo della libertà ( dal lavoro) mettendosi così in una posizione schizofrenica. Ma non è così per chi essendosi dato uno scopo, nel tempo da lui dedicato ad escogitare i mezzi per raggiungerlo non vedrà certo una costrizione, ma la sua vera libertà.  Il tutto condito da una componete fondamentale, la passione e l'impegno per ciò che si fa; con essi il lavoro è una conquista piacevole e  rende liberi. Tutto questo per evidenziare l'importanza del lavoro come bene primario da rivalutare e proteggere e per richiamare alla mente di alcuni governanti, che il solo rigore e la finanza (specie quella speculativa), non creano ricchezza ma povertà, disoccupazione e disperazione, e l'articolo 1 della nostra costituzione ( L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.), è stata scritta da Coloro che hanno saputo interpretare la vera essenza del lavoro, l'unico che genera vera ricchezza, per chi è chiamato a svolgerlo nel modo più ideale possibile, per il bene e il progresso della società civile e in difesa della dignità della persona. "Moralità e lavoro", questi sono i valori che il probabile prossimo Primo Ministro "Bersani" del PD, ha posto alla base del suo programma; aiutiamolo a concretizzarli, quando saremo chiamati a scegliere Chi dovrà governare la nostra Italia nei prossimi cinque anni.

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