Discorso del Presidente Giorgio Napolitano al Parlamento Europeo del 4 febbraio scorso.
Signor Presidente, caro amico, La ringrazio vivamente per la calorosa
accoglienza riservatami e per le amichevoli espressioni di apprezzamento del mio
impegno istituzionale al servizio dell'Italia e dell'Europa.
Signori deputati, torno in quest'Aula a sette anni di
distanza dall'omaggio che volli rendere al Parlamento europeo poco dopo la mia
elezione a Presidente della Repubblica italiana e colgo oggi l'opportunità che
mi è stata offerta dal vostro Presidente di rinnovare quell'omaggio, fondandolo
su riflessioni scaturite dall'esperienza più recente vissuta da noi
tutti.
Nei
sette anni trascorsi, la costruzione europea ha dovuto fronteggiare le prove più
dure della sua storia. Si è spesso osservato che fin dagli inizi l'Europa
comunitaria si sviluppò attraverso crisi via via insorte e poi superate, ma si
trattò essenzialmente di crisi politiche nei rapporti tra Stati membri della
Comunità; mai – come a partire dal 2008 – di crisi strutturali, nella capacità
di crescita economica e sociale, nel funzionamento delle istituzioni, nelle basi
di consenso tra i cittadini. Mai era stata, di conseguenza, messa in questione,
e radicalmente in questione, la prosecuzione del cammino intrapreso.
Questo è invece il contesto nel quale ci si avvia alle
elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Ritengo perciò che si debba
considerare la situazione che si è venuta a creare, anche se in misura e in
forme diverse da Paese a Paese, come un momento della verità, da affrontare fino
in fondo e in tutte le sue implicazioni.
È
del tutto evidente che la principale fonte del disincanto, della sfiducia e del
rifiuto verso il disegno europeo e innanzitutto verso l'operato delle
istituzioni dell'Unione risiede nel peggioramento delle condizioni di vita e
dello status sociale, che ha investito larghi strati della popolazione nella
maggior parte dei paesi membri dell'Unione e dell'eurozona. Il dato emblematico,
riassuntivo di tutti gli effetti negativi e traumatici della crisi, è l'aumento
della disoccupazione, è l'impennata drammatica della disoccupazione
giovanile.
Appare dunque naturale che nel dibattito pubblico e nel
confronto politico abbia assunto una netta priorità il tema di una svolta capace
di condurre a quell'effettivo rilancio della crescita e dell'occupazione da ogni
parte considerato indispensabile e auspicato. Si ritiene cioè che non regga più
una politica di austerità ad ogni costo. Quest'ultima ha costituito la risposta
prevalente alla crisi del debito sovrano nell'area dell'euro e ha privilegiato
drastiche misure per il contenimento del rapporto deficit-PIL, per il
riequilibrio, a tappe forzate, della finanza pubblica in ciascun Paese
dell'area.
E
in effetti, di fronte alla crisi che aveva messo pesantemente in questione la
sostenibilità finanziaria dei Paesi dell'eurozona, non si poteva sfuggire alla
necessità di definire e rendere vincolante una disciplina di bilancio rimasta
gravemente carente dopo l'introduzione della moneta unica. Signori deputati, voi
avete perciò – come Parlamento dell'Unione – giustamente contribuito al varo di
importanti pacchetti di misure per stabilire un quadro stringente di
sorveglianza e di coordinamento rispetto alle decisioni di bilancio degli Stati
membri dell'area euro.
L'Italia, in particolare, ha compiuto in questi anni
rilevanti sforzi e sacrifici, essendo bersaglio di forti pressioni sui mercati
finanziari per il livello degli interessi sull'ingente debito pubblico
accumulato nei decenni precedenti. E nemmeno il netto miglioramento, sotto
questo profilo, raggiunto nel corso del 2013, può spingerci a desistere
dall'impegno di progressiva sostanziale riduzione del debito, un pesante
fardello che non può essere caricato dalla classe dirigente nazionale sulle
spalle delle giovani generazioni.
Ma
le conseguenze dei severi interventi di stabilizzazione adottati dall'Unione e
ancorati ai parametri di Maastricht hanno avuto ricadute di innegabile gravità
in termini di recessione, di caduta del prodotto lordo e della domanda interna,
specialmente nei Paesi chiamati ai maggiori sacrifici, e ciò nonostante scelte
coraggiose compiute dalla BCE per contrastare la speculazione sul mercato dei
titoli del debito pubblico e per iniettare liquidità nelle molto provate
economie dell'eurozona.
La
svolta che oggi si auspica da parte di molti non può perciò certamente andare
nel senso dell'irresponsabilità demagogica e del ripiegamento su situazioni di
deficit e di debiti eccessivi. Essa deve però riflettere la consapevolezza di un
circolo vizioso ormai insorto tra politiche restrittive nel campo della finanza
pubblica e arretramento delle economie europee, giunte oggi al bivio tra primi
segni di ripresa e rischi, se non di deflazione, di sostanziale
stagnazione.
Rompere quello che per diversi aspetti è diventato,
appunto, un circolo vizioso – suggerendo a un autorevole studioso come Claus
Offe l'immagine di una "Europa intrappolata" – è ormai essenziale, se si guarda
soprattutto alla condizione di un'intera generazione oggi alla deriva. Ad essa
anche una ripresa della crescita – se debole e non finalizzata ad obbiettivi
specifici per i giovani privi di lavoro – tende ad offrire scarsa e cattiva
occupazione.
Occorre infatti, a questo proposito, tener conto delle
radicali trasformazioni tecnologiche intervenute e ancora in corso e dell'arduo
confronto competitivo con grandi aree economiche extraeuropee e si deve quindi
procedere – dove non lo si è già fatto – a riforme dei sistemi formativi e del
mercato del lavoro, investire in conoscenza, ricerca, preparazione della giovane
forza lavoro a nuove opportunità e forme di occupazione.
Una
crescita sostenuta e qualificata richiede certamente riforme strutturali, ma
richiede in pari tempo un rilancio, oltre che di investimenti privati, di
ben mirati investimenti pubblici, al servizio di progetti
europei e nazionali. A tal fine è necessaria – al di là del riferimento a
parametri rigidamente intesi – maggiore attenzione per le effettive condizioni
di sostenibilità del debito in ciascun Paese e, in relazione a ciò, sufficiente
apertura sui modi e sui tempi dell'ulteriore riequilibrio finanziario. Il
Parlamento europeo ha dato utili indicazioni con l'ampia risoluzione approvata
il 12 dicembre scorso, ispirata a criteri di rinnovata solidarietà in seno
all'Unione e in particolare all'eurozona.
Dall'Unione bancaria, avviata già nel giugno 2012 dal
Consiglio europeo, a un'adeguata capacità di bilancio dell'Unione fondata su
specifiche risorse proprie, a regole forti di coordinamento delle politiche
economiche e nazionali, tali da assicurare una crescente coesione tra le
economie degli Stati membri: questi ed altri elementi sono collocati dalla
vostra risoluzione nel quadro di un rilancio della strategia di "integrazione
differenziata", con particolare riferimento alla cooperazione rafforzata nel
campo delle politiche economiche e sociali. E non manca, nella risoluzione, il
richiamo sia alle potenzialità ancora inesplorate dei trattati vigenti sia alle
esigenze, in prospettiva, di modifica dei trattati stessi.
Si
va insomma delineando, signori deputati, un cambiamento profondo del modo di
essere e di operare dell'Unione europea. I cittadini-elettori non sono dinanzi a
una scelta fuorviante tra stanca, retorica difesa, da una parte, di un'Europa
che ha mostrato gravi carenze e storture nel cammino della sua integrazione e,
dall'altra parte, agitazione distruttiva contro l'euro e contro l'Unione. Sì,
puramente distruttiva, anche se in nome di un'immaginaria "altra Europa" da far
nascere sulle rovine di quella che abbiamo conosciuto. No, i termini della
scelta non sono questi.
Infatti, poste di fronte a una
drammatica crisi finanziaria, economica e sociale, le istituzioni europee si
sono mosse a fatica, fra troppe esitazioni, divergenze e lentezze, ma si sono
certamente mosse nel senso della correzione di comportamenti precedentemente
tenuti.
Il
presidente Draghi ha negato, in un convegno del novembre scorso a Berlino, che
si possa parlare di "un decennio perduto". I Paesi dell'area dell'euro sono
stati indotti – egli ha detto – ad "usare il secondo decennio di vita dell'euro
per disfare gli errori del primo". In queste parole non c'è ombra di retorica,
ma chiara consapevolezza autocritica.
L'euro ha rappresentato un'innovazione di valore storico,
ma è rimasta per troppi anni monca, priva di complementi essenziali, il che può
essere spiegato solo con anacronistiche chiusure e arroccamenti nazionali in
campi che dopo l'introduzione dell'euro non potevano rimanere presidiati dalla
sovranità nazionale.
La
gravità della crisi ha travolto molte resistenze e spinto fortemente nella
direzione di una maggiore integrazione. Tuttavia, per quel che riguarda il
metodo e il quadro giuridico che sono prevalsi, è indubbio che si sia operato in
chiave di decisioni intergovernative e di accordi internazionali, fuori del
tracciato comunitario e bisognerà dunque giungere, come chiede il Parlamento e
come prevede lo stesso "fiscal compact" a "collocare la governance di
un'autentica Unione economica e monetaria all'interno del quadro istituzionale
dell'Unione". Perché passa di qui la questione di un deciso rafforzamento della
legittimità democratica del processo decisionale in seno all'Unione: questione
che si è aggravata nella percezione generale, politica se non tecnica,
dell'opinione pubblica, concorrendo al diffondersi tra i cittadini di fenomeni
di distacco e diffidenza verso le istituzioni europee.
Voglio dire che – nella crisi di consenso popolare di cui
l'Unione europea e il processo di integrazione stanno soffrendo – c'è tutto il
peso del malessere economico e sociale che l'Unione non è stata in grado di
evitare, ma c'è anche il peso di una grave carenza politica, in varie forme, sul
piano dell'informazione e del coinvolgimento dei cittadini nella formazione
degli indirizzi e delle scelte dell'Unione. E il cambiamento da proporre
all'elettorato deve dunque andare al di là delle politiche economiche e sociali.
Così come al di là di esse deve andare la sfida con le forze che negano e
avversano il disegno dell'integrazione europea, nella sua continuità e nel suo
necessario e possibile rinnovamento.
Una
nuova stagione di crescita economica, sostenibile da tutti i punti di vista, è
indispensabile per ricreare fiducia, ma essa non basta per garantire la
legittimità democratica del processo d'integrazione, se non è accompagnata da
nuovi sviluppi in senso istituzionale e politico nella vita
dell'Unione.
Penso che quanti di noi credono nella causa dell'Europa
unita possano prepararsi al confronto elettorale con serenità e con fiducia,
come portatori di cambiamento, tanto più se si restituirà al nostro disegno e
alla nostra esperienza il loro volto complessivo, tutta intera la loro
ricchezza, dopo averne visto in questi anni prevalere una versione riduttiva,
economicistica, con pesanti connotati tecnici.
Si
è attenuata – e va riproposta con forza – la visione di quel che si è costruito
realmente in poco più di mezzo secolo: non solo un'area di mercato comune e di
cooperazione economica, ma una comunità di valori e con essa una comunità di
diritto complessa e articolata nel segno della libertà e della democrazia. C'è
stato un continuo allargarsi di orizzonti del progetto europeo e si è delineata
la prospettiva anche di una comune visione e capacità d'azione europea nel campo
delle relazioni internazionali e della difesa e sicurezza. Il lievito di questa
costruzione senza precedenti è stato il sentimento di una ricchissima cultura
comune: sentimento che abbiamo avvertito giorni fa nell'addio dell'Europa a un
grande campione dei valori europei, Claudio Abbado.
Da
tutto ciò traggo la conclusione che la costruzione europea ha ormai delle
fondamenta talmente profonde, che si è creata un'interconnessione e
compenetrazione così radicata tra le nostre società, tra le nostre istituzioni,
tra le forze sociali, i cittadini e i giovani dei nostri Paesi, che nulla, nulla
può farci tornare indietro.
C'è
dunque vacua propaganda e scarsa credibilità nel discorso di quanti hanno
assunto atteggiamenti liquidatori verso quel che abbiamo edificato nei decenni
scorsi, dall'Europa dei 6 all'Europa dei 28. Come si può parlare di "fine del
sogno europeo", sostenendo magari che quella fine si potrebbe scongiurarla
abbandonando l'euro per salvare l'Unione? La fattibilità e le conseguenze
traumatiche di quell'abbandono vengono considerate da qualcuno con disarmante
semplicismo, né vedo quale dovrebbe essere il luogo e quali i garanti di un così
improbabile scambio.
In
effetti, nonostante il moltiplicarsi, in questi anni, delle previsioni
catastrofiche sull'imminente crollo dell'euro, le istituzioni dell'Unione e le
più avvedute leadership politiche nazionali hanno compreso che per salvaguardare
l'intero progetto europeo era essenziale difendere l'euro. Ma è stato necessario
fare i conti con gli errori compiuti, dovuti, a ben vedere, all'affievolirsi
della volontà politica comune, che aveva reso possibile quel balzo in avanti e
che avrebbe dovuto presiedere a tutti i successivi sviluppi dell'integrazione
europea, in uno con i processi dell'unificazione tedesca e dell'allargamento
dell'Unione.
Se
quello che oggi stiamo vivendo e che si manifesterà nell'imminente confronto
elettorale, è – come ho detto all'inizio – un momento della verità per la causa
dell'unità e del futuro dell'Europa, condizione decisiva del successo è una
nuova, più forte e decisa volontà politica comune, capace di trasmettere alle
più vaste platee di cittadini le ragioni storiche e le nuove motivazioni del
progetto europeo. Trasmetterle razionalmente ed emotivamente: deve trattarsi
cioè di un messaggio appassionato, profondamente sentito, come quello
consegnatoci da grandi immagini dei passati decenni. Quella, ad esempio, di
François Mitterrand ed Helmut Kohl che rendono omaggio, mano nella mano, ai
caduti nella terribile battaglia di Verdun durante la prima guerra
mondiale.
Si
è scritto che quei "due grandi europei erano impregnati di sentimento tragico
della Storia": di lì il loro europeismo, fino all'accordo sull'unificazione
tedesca e sulla moneta unica, ma di quel sentimento erano "impregnati" tutti i
padri fondatori dell'Europa comunitaria, firmatari della dichiarazione Schuman
del maggio 1950, fautori della prospettiva di una Federazione
europea.
Non
mi ha però mai contagiato il timore che, nel passaggio delle responsabilità
politiche e di governo a generazioni successive, potessero dissolversi
l'ispirazione, la consapevolezza, la volontà politica comune europea, culminata
nell'unificazione dell'intero continente su basi di pace e di libertà. Tuttavia,
che queste non si siano dissolte e possano ritrovare forza in un contesto
diverso e nuovo, è ciò di cui si deve ora dare l'estrema prova.
Naturalmente, le motivazioni del progetto europeo sono
divenute altre ed esse possono ben parlare agli europei di questo secolo, agli
europei del mondo di oggi.
Ieri la molla del porre fine ai nazionalismi economici e
politici, generatori di conflitti fatali, era una molla potente per conquistare
consensi alla causa dell'unità europea. Ebbene, una molla non meno potente può
essere oggi quella dello scongiurare il declino del nostro continente, di quel
che esso ha rappresentato nella storia. L'Europa nel suo insieme è diventata più
piccola rispetto ad altri continenti in termini di peso demografico, di potenza
economica, di ruolo negli equilibri mondiali, ma se saprà unire sempre di più le
sue forze, potrà continuare a dare il suo apporto peculiare allo sviluppo
storico e all'avvenire della civiltà mondiale.
La
missione nuova ed esaltante dell'Europa unita è quella di far vivere, nel flusso
di una globalizzazione che potrebbe sommergerci come nazioni europee, la nostra
identità storica, il nostro inconfondibile retaggio culturale, il nostro esempio
e modello di integrazione sovranazionale, di comunità di diritto, di economia
sociale e di mercato.
Perché questa missione sia condivisa dai popoli della
nostra Unione e possa essere portata avanti con successo, occorre però una più
forte coesione politica europea, una più convinta e determinata leadership
politica europea. Trent'anni fa, esattamente trent'anni fa qui a Strasburgo –
lasciate che lo ricordi – Altiero Spinelli riuscì a far esprimere al Parlamento
europeo questa capacità di leadership con il progetto di trattato che porta il
suo nome. L'occasione non fu allora raccolta, ma la sua ispirazione
costituzionale ha continuato a vivere e a contare, anche perché la sua idea di
Europa federale non aveva nulla a che fare con lo spauracchio agitato da varie
parti di un super-Stato centralizzato.
Molta strada dal 1984 ad oggi è stata dunque fatta, ma
restano da vincere ancora dure battaglie politiche, se non contro possibili
ritorni di nazionalismi aggressivi, certamente contro persistenti egoismi e
meschinità nazionali, contro ristrettezze di vedute, calcoli di convenienza e
conservatorismi anacronistici, quotidianamente riscontrabili nelle classi
dirigenti nazionali.
Manca oggi – ha di recente notato Helmut Schmidt – "la
vista lunga" in troppi leader europei, per insufficiente consapevolezza del
declino che minaccia l'Europa. I padri fondatori e costruttori dell'Europa
comunitaria non erano solo "impregnati di sentimento tragico della storia",
erano in pari tempo portatori di un'audace e realistica visione del futuro. E
questa può darla oggi, ovvero nei prossimi anni, solo una politica che si faccia
finalmente europea, mentre finora in un continente così interconnesso come il
nostro, la politica è rimasta nazionale, con i suoi fatali limiti e con le sue
diffuse degenerazioni.
Una
politica europea, uno spazio pubblico europeo, dei partiti politici europei, che
cos'è l'Unione politica di cui si parla, se non si fa vivere su scala europea il
confronto politico democratico, la competizione tra le diverse correnti ideali e
forze politiche organizzate? È questo un grande salto in avanti da compiere e
rispetto al quale molto hanno da dire il Parlamento e i parlamentari europei, in
stretto raccordo con i parlamenti e i parlamentari nazionali, per raggiungere le
masse più larghe di cittadini, coinvolgendoli in una più informata e attiva
partecipazione politica alla costruzione di un'Europa più unita, più
democratica, più efficace.
In
questo Parlamento, d'altronde, opera già il nucleo originario e vitale dei
partiti politici europei. È qui che si raccolgono le maggiori sensibilità e
competenze su cui poter fondare un messaggio politico per il governo dell'Europa
da condividere con i cittadini, al di là del linguaggio in codice e dei
complessi tecnicismi delle istituzioni di governo dell'Unione.
È
nelle vostre mani, signor Presidente, signori deputati, per gran parte nelle
vostre mani, il compito di far nascere e crescere la dimensione politica
dell'integrazione europea, nella nuova fase di sviluppo che per essa si
apre.