Conoscere l'Europa - Il futuro dell'Euro

La creazione della moneta unica col Trattato di Maastricht ha segnato un momento di svolta fondamentale nel processo di integrazione europea. Il primo decennio di vita dell’euro grazie ad un quadro internazionale di forte espansione dell’economia è riuscito a funzionare sulla base dei semplici parametri di stabilità (relativi in particolare al rapporto debito pubblico/PIL e al livello del deficit) che gli Stati si sono impegnati a rispettare sotto la debole supervisione della Commissione europea (nonostante il fatto che sia la Francia che la Germania, insieme ad altri Paesi della zona euro, abbiano in realtà sforato rispetto agli impegni previsti dal Patto, e che gli europei abbiano comunque pagato un prezzo elevato in termini di capacità di crescita economica, tanto che il divario rispetto agli Stati Uniti è tornato a crescere dopo decenni).
L’Unione allargata a ventisette non ha voluto superare la sua dimensione confederale, lasciando intatta la sovranità degli Stati nazionali e quindi le sue divisioni interne. La grave crisi finanziaria globale scoppiata alla fine del 2009 si è abbattuta così su un’unione monetaria profondamente debole, che ha molto sofferto l’assenza di una sovranità europea alle sue spalle: paradossalmente, infatti, la crisi, pur trovando le sue origini in America, ha colpito soprattutto l’Europa, che, essendo priva degli strumenti della statualità, non ha né saputo, a differenza degli Stati Uniti, avviare politiche attive a favore della crescita, né evitare quei profondi squilibri economici interni, che sono stati, insieme alle contraddizioni inerenti ad un’area monetaria politicamente divisa, alla radice dei fenomeni speculativi.

Davanti al rischio di default della Grecia e dell’Irlanda molti osservatori hanno cercato di sostenere che la crisi non riguardasse tanto la moneta unica, che manteneva intatto il suo valore rispetto alla sterlina e al dollaro, bensì solo alcuni Paesi periferici dell’Unione, i così detti “PIIGS”: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna.

Questi Stati, in seguito alla crisi che ha alimentato il debito (sia a causa della cattiva gestione dei conti pubblici, sia della scarsa crescita economica, sia della necessità di sostenere le proprie banche per evitarne il fallimento), si sono trovati nell’incapacità di rifinanziare il loro debito sovrano. Le debolezze strutturali di questi Paesi hanno quindi messo in grave pericolo l’intera Eurozona, che, data la profonda interdipendenza economica dei suoi membri, difficilmente potrebbe sopravvivere al default anche di un solo Stato. La stampa più populista e gli osservatori meno attenti si sono così scagliati contro i PIIGS proponendo di dividere o addirittura distruggere l’Unione monetaria.

In realtà la causa della crisi va cercata più a fondo. E’ sicuramente vero che Paesi meno virtuosi, come la Grecia e il Portogallo, davanti alla crisi internazionale pagano il prezzo delle loro debolezze strutturali e anche delle loro scelte economiche sconsiderate, mettendo in pericolo allo stesso tempo l’intera Unione monetaria. Non bisogna tuttavia dimenticare che in passato anche altri Paesi, oggi considerati modelli di solidità, hanno trasgredito i parametri di Maastricht e si sono serviti del loro peso politico per evitare la procedure di infrazione da parte della Commissione europea.

Se così oggi l’Unione monetaria soffre la debolezza di alcuni Paesi periferici, il vero problema di fondo resta comunque la contraddizione di un’area monetaria unica senza la presenza dello Stato: contraddizione che impedisce di governare in modo unitario l’economia, di ammortizzare gli shock asimmetrici, di contenere il divario tra i Paesi più competitivi e quelli più deboli, di sviluppare la solidarietà tra i partner.

Al di là dell’impegno assunto a fine marzo bisognerà vedere fino a che punto si concretizzerà questa convergenza delle politiche dei membri dell’Eurozona, che ancora una volta dipende dall’impegno dei singoli Stati di fare le riforme, ovvero dal buon senso della classe politica di garantire una solidarietà europea di fondo alla luce dell’interesse generale. Segnali inquietanti arrivano dall’ascesa dei partiti euroscettici in Finlandia, così come dal montare un po’ in tutti i Paesi europei della marea populista.

Grave è anche la debolezza del governo portoghese, che è caduto davanti al voto sulle riforme interne richieste da Bruxelles; così come rimane drammatica la crisi che continua ad attanagliare la Grecia (il suo precedente governo di destra ha presentato un falso bilancio pur di entrare nell’area dell’euro), che ha dovuto richiedere un ulteriore prestito e che è sempre più scossa dall’acuirsi della tensione sociale e da quella politica che ne deriva. Eppure il Patto per la competitività, pur non costituendo ancora un passo sufficiente per rilanciare il processo di integrazione politica del continente, resta comunque un progetto ricco di potenzialità. 

Bisogna notare il ruolo del governo tedesco nella gestione della crisi, che pur con mille difficoltà e titubanze, ha finalmente compreso il pericolo che la Germania correrebbe in seguito ad un ipotetico crollo dell’Unione monetaria, assumendosi così le proprie responsabilità per evitare un simile scenario.

Evidentemente il Patto per l’euro resta comunque insufficiente nella misura in cui la convergenza delle politiche fiscali ed economiche viene proposta attraverso il metodo intergovernativo, che difficilmente manterrà l’Unione abbastanza compatta per poterle fare compiere le riforme necessarie per la stabilità e soprattutto per la crescita, che resta il fattore determinante per risolvere sia la crisi finanziaria che quella economica.

I ministri dell'area euro "sono pronti ad adottare ulteriori misure contro il contagio". A partire da un rafforzamento del Fondo salva-Stati, e coinvolgendo eventualmente i creditori privati. Niente misure concrete per fermare gli attacchi dei mercati finanziari che hanno preso di mira anche l'Italia, facendo balzare lo 'spread' decennale a nuovi record oltre i 300 punti e affondando la borsa di Milano. Una crisi, quella delle finanze italiane che secondo la direttrice dell'Fmi, la francese appena nominata, è "determinata solo dai mercati". Per più di un anno abbiamo pensato che la crisi del debito sovrano potesse riguardare solo la Grecia e poi l’Irlanda, il Portogallo e forse la Spagna.

Per mesi ci hanno detto che il governo italiano aveva messo i conti ‘in sicurezza’ e potevamo stare tranquilli. Improvvisamente scopriamo che non è così. Molto dipenderà dall’approvazione della manovra economica di 43 miliardi di euro che oggi sarebbero disponibili, senza chiedere ulteriori sacrifici alle classi più deboli se si facesse pagare il dovuto a coloro che hanno fatto rientrare i capitali (sono 100 miliardi di euro), facendo pagare non il 5%, com’è stato fatto, ma il 43% (38 miliardi di euro recuperabili da questa operazione) e se si abolissero le province ci sarebbero altri 16 miliardi di risparmi. Solo queste due operazioni darebbero, in tempi brevi, 54 miliardi di euro e non si andrebbe a toccare quelle pensioni e fonti di reddito che sono servite a mantenere anche i figli e i nipoti precari e/o senza lavoro; inoltre non si deprimerebbe ancora di più la domanda e quindi l’economia ed è ciò che serve.

L'Eurogruppo ha delineato comunque una possibile strada da seguire per prepararsi al peggio: i ministri sono pronti ad "aumentare la flessibilità e la capacità del fondo EFSF e allungare le scadenze dei prestiti e abbassare i tassi". Anche attraverso un accordo sul collaterale, o dando all'European Financial Stability Facility', che finora può solo concedere prestiti bilaterali ai Paesi in difficoltà come fatto con Grecia, Portogallo e Irlanda, la capacità di comprare titoli di Stato sui mercati.

L’attuale presidente della BCE Trichet, ha fatto notare che un'importante realtà economica come l'Europa, provvista di una Banca centrale e una moneta unica, dovrebbe avere un suo ministro dell’economia e delle finanze; solo così si potrebbero coordinare e controllare i bilanci dei singoli Stati e ciò rappresenterebbe un primo e significativo passo verso una maggiore integrazione dell’Unione Europea, non solo per mettere al sicuro l’euro ma anche per assicurare all’Europa un ruolo primario nel nuovo mondo globalizzato.

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