Le nuove norme dettate dal fiscal compact e il moltiplicatore keynesiano.

L'appello del presidente Napolitano, durante la sua visita in Germania, di un'Europa più solidale che guardi di più allo sviluppo e all'occupazione dovrebbe essere il tema dominante a tutti i livelli e in ogni ambito politico e economico.  Altri avvenimenti e il risultato delle elezioni che potrebbe dare stabilità e durata ad un governo di cui l'Italia ha tanto bisogno, se Grillo anteponesse al suo comportamento velleitario l'interesse del Paese, cercando un accordo con il PD, oggi il solo partito responsabile che può dare un futuro al Paese, ci hanno fatto dimenticare gli impegni che gravano sulle nostre spalle e che condizioneranno la nostra vita e in particolare quella dei nostri figli, nei prossimi vent'anni. Dal primo gennaio nell’Eurozona, sono diventate operative le nuove norme dettate dal Fiscal Compact. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta.
 
Lo strumento di controllo ritenuto fondamentale dal Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha preso l’avvio con l’inizio del nuovo anno. Il Fiscal Compact, racchiude in se regole più severe e sanzioni per chi non rispetta il trattato. Regole per potenziare la sorveglianza sui conti pubblici degli Stati.
L'accordo, siglato lo scorso marzo 2012, da venticinque Capi di Stato e governo (non dalla Gran Bretagna e dalla Repubblica Ceca), prevede l’obbligo del pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione e stabilisce multe severe per chi non lo rispetta. Inoltre disegna un percorso a tappe forzate per la diminuzione del debito pubblico che dovrà scendere di un ventesimo l’anno. Il debito pubblico italiano è arrivato al 127 % del PIL; ciò comporta un ulteriore peso di circa 50 miliardi l'anno che si aggiungono ai circa 85 miliardi di interessi annui che dovranno essere pagati.  
Fino ad oggi sono solo dodici gli Stati che hanno ratificato il patto (fra cui l’Italia, l’ultima a farlo è stata la Finlandia), numero sufficiente a farne scattare l’entrata in vigore fin da adesso. Nei fatti, quindi, il Fiscal compact è un possente steccato formato da rigidi paletti con il quale qualsiasi coalizione si candidi a governare l’Italia dovrà fare i conti. Rigore e austerity sono praticamente obbligatorie, se si vuol continuare a far parte dell’Unione. Il "contratto" introduce infatti la "regola d'oro" del pareggio nelle Costituzioni nazionali o in legislazioni equivalenti e prevede "sanzioni semiautomatiche" contro ogni "violazione del criterio dell'avanzo".
L'equilibrio da rispettare è fissato in questi termini: il deficit strutturale del Paese (al di fuori degli elementi eccezionali e del pagamento degli interessi sul debito) non potrà superare lo 0,5 per cento del PIL valutato a prezzi di mercato. Per i Paesi che hanno un debito al di sotto del tetto del 60 per cento del PIL, il margine di tolleranza raddoppia e sale all’1 per cento.
Se questi limiti non saranno rispettati scatterà una correzione automatica, definita dagli Stati sulla base delle raccomandazioni della Commissione UE.
Le procedure potranno essere bloccate solo con una maggioranza qualificata contraria (serve l’85 per cento). Ora i governi che hanno accettato queste regole hanno un anno di tempo a partire dall'entrata in vigore del trattato per mettere in atto le nuove norme sul pareggio. Per chi non introdurrà l'obbligo del pareggio, la Corte di giustizia UE, le cui decisioni sono vincolanti, potrà imporre sanzioni fino a un massimo dello 0,1 per cento del PIL. Le multe, in questo caso "dovranno essere versate all'ESM, il fondo salva-Stati permanente.
Questo per i conti dell’anno, ma non basta. Il Fiscal compact prevede infatti l'obbligo di rientrare verso il tetto del 60 per cento del rapporto debito/PIL al ritmo di un ventesimo l'anno per la parte eccedente. Il testo fa riferimento al "six pack" votato dal Parlamento europeo nel 2011, in cui si menzionano gli altri "fattori rilevanti" che concorrono a determinare la sostenibilità di medio periodo: indebitamento privato, spesa pensionistica, attivo patrimoniale.
E’ chiaro che la stretta e il percorso di controllo e sorveglianza così rigido si è prestato a diverse polemiche ( prima fra tutte, in Italia, da chi sostiene che il trattato è illegale). Per la Germania di Angela Merkel invece la sua attivazione è una "buona notizia", una pietra miliare "per la risoluzione della crisi dei debiti sovrani perché induce gli Stati a mantenersi sul cammino del consolidamento delle finanze pubbliche". Ma dal 26 gennaio scorso, la lista dei critici delle misure di austerity depressiva adottate in Europa si è allungata. Si è aggiunto un nome insospettabile: Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea. che in un’intervista rilasciata a Davos (Svizzera) ha affermato: “le manovre di consolidamento erano indispensabili ma ora vanno ritirate. I governi si sono dovuti muovere in fretta perché la situazione era davvero urgente. Così hanno solo aumentato le tasse e ridotto gli investimenti pubblici. Ciò che è stato fatto in emergenza di fatto ha contratto l’economia e creato ulteriori squilibri dei conti pubblici”.
Insomma: anche Draghi ora ci dice che le manovre di bilancio hanno provocato la recessione e aggravato la situazione dei conti pubblici. Bene, anche se, un po’ incoerentemente, Draghi continua a giudicare quelle manovre “indispensabili”: ma in fondo, considerando che quelle manovre le aveva richieste lui stesso (con la famosa lettera della BCE dell’agosto 2011 al governo italiano), la cosa si spiega facilmente.
Cosa propone quindi Draghi? La sua risposta: agire sulla spesa pubblica, ridurre le tasse e intraprendere “una campagna d’investimenti strutturata”. Ma  se restano i vincoli di bilancio imposti con il Fiscal Compact, com'è possibile fare questo? Solo rinegoziando il Fiscal Compact si potrà superare questo vincolo. L'alternativa è un taglio netto di quelle spese ancora non toccate dalle manovre precedenti fatte con la "revisione della spesa", a partire dall'acquisto degli F35.
Ma Qualcuno di coloro che prendono decisioni sui problemi dell'economia e come uscire dalla crisi drammatica che stiamo vivendo, dovrebbe anche tener conto della dottrina keynesiana e dell'esistenza del moltiplicatore. Sebbene dopo 76 anni dalla pubblicazione della Teoria Generale una parte di economisti continui, imperterrita, a negare l’esistenza del moltiplicatore keynesiano, la realtà si incarica di dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il moltiplicatore non solo esiste ma è anche più grande di quanto comunemente si tende a supporre. Soprattutto quando c’è di mezzo una crisi economica: basti vedere i disastrosi risultati dell’austerità in giro per l’Europa.
L’argomentazione per la quale fare deficit spending durante una crisi crea più PIL della spesa stessa è sempre oggetto di forte critica: l’argomento principe contro il moltiplicatore è che nessuno può dimostrare che proprio la spesa pubblica aggiuntiva sia la causa di una ripresa. Ma il moltiplicatore vale anche al contrario: tagliare la spesa ha effetti depressivi maggiori dell’ammontare del taglio stesso.
In un documento scritto da tre economisti, (Nicoletta Batini, Giovanni Callegari e Giovanni Melina), coinvolti per conto del FMI, (working paper) viene calcolato l’effetto dell’austerità sul PIL nell’Eurozona, negli USA e in Giappone. Inoltre, per l’Eurozona, si analizzano separatamente Francia e Italia.
Il risultato è che un taglio della spessa pubblica equivalente all’1% del PIL provoca una caduta fino al 2,56% del PIL per l’Eurozona, del 2% per il Giappone e del 2,18% per gli Stati Uniti. Riguardo l’Italia si va dall’1,4% all’1,8%. Molto più modesti gli effetti contrattivi durante un’espansione, il che induce gli autori a suggerire una austerità “morbida”, che agisca quando l’economia torna ad espandersi (come del resto suggeriva già Keynes  ed il buon senso), in modo da non compromettere la crescita e lo stesso risultato di riduzione del debito pubblico.
Lo studio analizza anche l’effetto di un aumento delle tasse dell’1% e qui i risultati sono più contenuti e vanno, a seconda del Paese, tra lo 0,03% e lo 0,65%. E, aggiungiamo noi, in modo corrispondente non c’è da attendersi un grande effetto espansivo dal taglio delle tasse, sebbene un alleggerimento fiscale sia certamente necessario in Italia.
In altre parole, l’idea che si possano risolvere i problemi del nostro Paese e uscire dalla crisi con un piano “taglia spesa, taglia tasse”, come proposto da alcuni, avrebbe prodotto un aggravamento della crisi e ammanchi nelle casse pubbliche. Per l'Italia ancora una volta purtroppo i  dati comunicati dall'ISTAT su: aumento dei disoccupati al 12% e del debito pubblico, un PIL -2,4%, danno ragione a Keynes e agli economisti premi Nobel, come Krugman, che da tempo sostiene come questa politica di sola austerità sia un "suicidio" per l'Europa e per i Paesi che la stanno applicando.

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